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La Corte di Cassazione Sezione Lavoro ha ribadito il proprio orientamento in materia di mobbing con la sentenza del 26 marzo 2010, n.7382.  Il testo integrale della sentenza è disponibile a questo link:  A richiesta per i clienti dello studio.

Il principio affermato ormai in modo lapidario è il seguente: per mobbing, riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datare di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio fisico e psichico e della personalità del medesimo.

Elementi essenziali della condotta e presupposto per l’applicazione degli istituti risarcitori sono:

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Elementi essenziali della condotta e presupposto per l’applicazione degli istituti risarcitori sono:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

La sentenza, interessante anche per altri aspetti di dettaglio, affronta in modo particolareggiato la casistica dei comportamenti che hanno generato le vessazioni e il mobbing ai danni del lavoratore.

Ecco per estratto il testo:

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che per “mobbing”, riconducibile alla violazione degli
obblighi derivanti al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c, deve intendersi una condotta nei confronti del
lavoratore tenuta dal datore di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e consistente in reiterati
comportamenti ostili, che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui
consegue la mortificazione morale e l’emarginazione dei dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi
dell’equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo. E’ stato quindi precisato che ai fini della
configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti : a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento
vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; e) il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. E’ stato infine ritenuto che la valutazione degli
elementi di fatto emersi nel corso del giudizio, ai fini dell’accertamento della sussistenza del mobbing e della
derivazione causale da detto comportamento illecito dei datore di lavoro di danni alla salute del lavoratore,
costituisce apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito e non censurabile in sede di
legittimità se adeguatamente e correttamente motivato (cfr. Cass. n. 3785/2009, n. 22893/2008, n.
22858/2008).
Nella specie la Corte territoriale ha tenuto correttamente presenti gli elementi costitutivi della figura del
“mobbing”, come delineati dalla giurisprudenza, né dal motivo di ricorso è dato comprendere sotto quale
profilo il giudizio della Corte si sia allontanato dalla fattispecie astratta delineata dall’elaborazione
giurisprudenziale, sicché la censura di violazione dell’art. 2087 cc. si rivela destituita di fondamento.
Quanto poi al concreto apprezzamento dei fatti emersi nel corso del giudizio, va osservato che la Corte
territoriale ha dato compiuta ragione della sua decisione partendo da un attento esame di tutte le
testimonianze raccolte, valutate sia nel loro complesso che singolarmente, il giudice di appello, sulla scorta
delle varie testimonianze, è pervenuto al convincimento che il (…) a partire dal 1995, fu preso di mira dal
direttore dello stabilimento fatto oggetto di continui insulti e rimproveri, umiliato e ridicolizzato avanti ai
colleghi di lavoro, adibito sempre più spesso ai lavori più gravosi (addetto ai forni) rispetto a quelli svolti in
passato (addetto alla pulizia degli uffici), nella indifferenza, tolleranza e complicità del legale rappresentate
della società. In questa complessiva valutazione negativa del comportamento datoriale non ha inciso in
senso limitativo o riduttivo la circostanza, non ignorata dal giudice di appello, che al (…) dalla società fosse
stato concesso in comodato un appartamento. In definitiva deve ritenersi che la Corte di Appello abbia
correttamente valutato tutti gli elementi probatori acquisiti ed abbia motivato in modo ampio e privo di
contraddizioni e vizi logici il proprio giudizio, con la conseguenza che le valutazioni del giudice di appello,
risolvendosi in apprezzamenti di fatto, non sono suscettibili di riesame in sede di legittimità.
Infondato è anche il terzo motivo di ricorso. La Corte di Appello ha osservato che la società non aveva
provato la riduzione della produzione ed il riassetto organizzativo che aveva posto a base del licenziamento
del Ha rilevato, anzi, che le testimonianze raccolte inducevano a ritenere che nell’anno del licenziamento la
crisi del settore edilizio era ormai superata, tanto che la società aveva assunto un altro operaio da adibire ai
forni. Ma soprattutto il giudice di appello ha rilevato che la società non aveva in alcun modo provato di non
poter utilizzare il all’interno dell’azienda in mansioni equivalenti, tenuto conto in particolare del fatto che il
lavoratore, come riferito dai testi, era in grado di lavorare su tutte le macchine di produzione e di svolgere
anche lavori di manutenzione degli impianti. Il mancato assolvimento dell’obbligo di repechage, in ordine al
quale la società non deduce specifiche censure, costituisce autonoma ragione di illegittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed è di per sé sufficiente a giustificare la conferma della
pronuncia dei giudici di merito.
Infondato, infine, è anche il quarto motivo di ricorso.
La società lamenta in primo luogo che il giudice di appello avrebbe qualificato come “doloso” il
comportamento del legale rappresentante benché il (…) non avesse mai allegato e provato un siffatto
atteggiamento psicologico del datore di lavoro. La censura è priva di fondamento ove si consideri che nella
specie si discute del rapporto assicurativo intercorso tra la (…) e la (…) per cui non ha senso lamentare una
violazione del principio di corrispondenza ex art. 112 c.p.c. con riferimento ad una domanda di accertamento
della illegittimità del licenziamento e di risarcimento danni posta da altro soggetto in relazione a diverso
rapporto giuridico.
La società lamenta in secondo luogo che il giudice di appello ha erroneamente escluso la garanzia
assicurativa benché mancasse del tutto la prova che l’evento dannoso fosse conseguenza del
comportamento doloso del rappresentante della società. La censura è priva di fondamento. Nella specie,
come si evince dalla clausola contrattuale trascritta in memoria dalla compagnia, si tratta di polizza di
assicurazione per la responsabilità civile della società verso i propri dipendenti per infortuni sul lavoro
derivanti da fatti commessi dall’assicurato o da suoi dipendenti. Trattasi dunque di contratto di assicurazione
stipulato a norma dell’art. 1917 cc., per il quale opera la disposizione di cui al primo comma della norma
citata, secondo cui dalla copertura assicurativa “sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi”. A quest’ultima
disposizione ha fatto espresso riferimento la Corte di Appello per respingere la domanda di garanzia
avanzata dalla (…) nei confronti della (…).
La Corte territoriale ha rilevato che dal materiale probatorio emergeva incontestabilmente anche il dolo
del sig. (…) amministratore unico della società omonima. A giudizio della Corte, che ha richiamato le
testimonianze di tali (…) è risultato provato che lo stesso (…) fu sempre consapevole dei comportamenti
aggressivi e vessatori tenuti dal (…) nei confronti del e che tollerò e assecondò detti comportamenti senza
far nulla per farli cessare, così accettando consapevolmente il rischio che da tali comportamenti illeciti
potessero derivare conseguenze dannose a carico dei dipendenti. Questa valutazione delle suddette
testimonianze non ha formato oggetto di alcuna censura da parte dell’attuale ricorrente sotto il profilo di
eventuali vizi logici o incongruenze del ragionamento del giudice, essendosi limitato il ricorrente a lamentare
la mancanza di prove del dolo, in insostenibile contrasto con quanto affermato nella sentenza impugnata.